di Giorgio Billeri
Giornalaio. Eccola, la nuova frontiera della delegittimazione via social verso chi riporta, commenta, approfondisce i fatti e i fenomeni delle nostre città. Non sei un giornalista, sei un giornalaio, e giù valanghe di pollicini felici, facili, anonimi. Tanti contro pochi.
Giornalaio, si. Io sono un giornalaio. Mestiere colpevolmente ed erroneamente relegato nei bassifondi della scala sociale, eppure nobile, antico, essenziale. Il giornalaio, o edicolante, si sveglia alle quattro del mattina, aspetta i pesanti pacchi dei giornali, li sistema in bella vista. Resiste al freddo cattivo dell’inverno e osserva l’allegro sciamare di ghiacciaie e materassini in estate senza potersi muovere dal suo gabbiotto. E resta lì. A diffondere cultura e sapere, a regalare due chiacchiere all’anziano. Un presidio sociale, umano.
Devo anche al giornalaio, o edicolante, buona parte della mia vita professionale. Senza di lui, senza le albe e i pacchi dei giornali scartati con le mani livide di gelo, non ci sarei stato, non ci saremmo stati. Non avremmo letto delle vittorie del Livorno in A, del basket, del rugby, di tante altre eccellenze di questa città magnifica e masochista. Non solo il Tirreno, ma anche tutti gli altri giornali: i titoloni della gazzetta dopo le vittorie Mondiali, il Corriere o Repubblica che annunciano nuovi governi o Torri Gemelle, persino il Vernacoliere che adesso annaspa in cerca di salvezza (e si salverà, perché Livorno quando vuole sa da che parte sta il cuore). Tutto questo, grazie al giornalaio.
Il giornalaio è un mestiere che sta sparendo. A Livorno, ad esempio, c’erano ottanta edicole e ne sopravvivono a malapena 25. La carta stampata non si vende più: si legge al bar, magari, o si spaccia, questo è il verbo giusto, di smartphone in smartphone. Dicono si chiami progresso, la discussione sarebbe lunga e perigliosa. Ma questo è.
Pochi giornalai resistono. Lottano, come tutti quelli che al mattino vanno a lavorare. Anche quelli per i quali, giornalaio è un moto di scherno, una parola per deridere magari chi la pensa diversamente da te. Siamo tutti giornalai, quindi, almeno io lo sono: ogni volta che leggo questo termine, non mi deprimo, anzi ho un moto d’orgoglio. E mi sento vicino all’alba di quelle poche edicole che restano.
Il giornalaio, in questo nuovo trend tutto labronico, è quello che non esalta abbastanza quando le cose vanno bene e che non è abbastanza cattivo quando vanno male. Che non si schiera pro o contro un allenatore contestato e un presidente non amato, un sindaco, un esponente politico a priori, ma cerca di raccontare i fatti come accadono. Che prende carta e penna e cerca di stimolare una discussione tra sport, economia, costume di una città estrema, che ama e odia con la stessa facilità. Non parlerò più, in questa sede, dei guai del Livorno calcio o del momento aureo del basket: il mio pensiero l’ho ampiamente espresso. Se questo è essere giornalai, io lo sono fieramente. Mandando un pensiero a quelli veri, che scartano all’alba, le mani gelate, i pacchi dei giornali.
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