di Giorgio Billeri
Premessa: non sono pentito dei 50 euro spesi, per me e mio figlio, per i biglietti di tribuna di Livorno-Forlì. Nessun pessimo spettacolo può rovinare la gioia di un hot dog e una coca cola col proprio erede: tempo di qualità. Puoi spendere 50 euro per una cena mal servita e mal cucinata, in un ristorante che credevi all’altezza e ti delude. Puoi spenderli per due libri che apri e subito chiudi, la prime pagine che trovi noiose e li lasci lì, condannandoli alla polvere del tempo. 50 euro puoi rimpiangerli per un idraulico che ti viene a casa e non ti risolve il problema, per uno spettacolo teatrale che ti induce allo sbadiglio. O puoi spenderli per una brutta partita di calcio. Ma, comunque, hai la gioia di abbracciare tuo figlio e io lo rifarei.
Ciò premesso, devo confessare una cosa, anzi due. Ho guardato più spesso Alessandro Formisano della partita (dimenticabile, per usare un eufemismo). Mi ha attratto, in maniera quasi sinistra, la sua parabola di uomo solo. Piantato davanti alla panchina, gli occhi celati dal cappellino. Solo, mentre alle sue spalle fiorivano offese irriferibili, quasi crudeli. All’uomo, più che all’allenatore. E lui che non poteva mai voltarsi, difendersi, dire magari “provateci voi” a chi lo crocifiggeva. Certo, i giocatori o gran parte di essi li ha scelti lui, e le colpe se le deve assumere, come quelle di avere sfaldato la squadra della promozione. Non è mai entrato, il ragazzo Formisano, in sintonia con una piazza che ama le lische più che la polpa, le ruvidezze di Jaconi e Indiani e non certo quel linguaggio covercianese impastato di “riaggressioni”, “catene”, “braccetti”: no, mister, a Livorno il nuovo gergo del football non attacca e mai attaccherà, ma magari lo ha già capito, da persona intelligente quale la ritengo.
Ma resta il fatto che quell’uomo solo, esposto, fragile mi ha mosso a compassione. Perchè questo ragazzo ci crede, lavora sul campo da mane a sera, si macera nelle notti di vigilia immaginando una squadra che, ahilui, non esiste. Perchè è modesta, si. Perchè ha il carattere d’argilla, alla prima difficoltà si spappola. Perchè la paura di sbagliare è talmente tanta che pur di non esporsi all’errore e al pubblico ludibrio non si attacca l’avversario, ma si rincula all’indietro sperando nell’altrui errore. Ecco perché Formisano e la sua creatura, mai davvero nata, non hanno un futuro. Eppure quel ragazzo piantato davanti alla panchina senza mai potersi voltare mi ha fatto tenerezza, ho sentito empatia umana con lui. Anche se il suo gioco non mi piace, non mi può piacere, e il feeling con la città è colpevolmente pari a zero. Ma è uno che lavora, come tutti noi. Che ce la mette tutta. E nel lavoro, nella vita chi sbaglia paga (non sempre). E lui pagherà, giusto così.
E poi c’è il secondo aspetto, anche questo figlio di un mio personalissimo modo di vedere lo sport in questa città. Joel Esciua, forse il principale bersaglio della furia popolare, ha sbagliato a comprare il Livorno. Non per l’investimento dal quale deve rientrare, in prima persona o per conto terzi, dal quale difficilmente rientrerà. Non per gli errori estivi, lo smantellamento di una squadra-orologio (Guidonia e Forlì docet). Non per la scelta comunicativa, quella di barricarsi in casa e sbarrare la porta. Non per Doga e Mazzoni, due innamorati della causa amaranto che potranno anche non essere Allodi e Corvino, ma che l’amore non lo fanno mancare pur nei tanti errori, anche di atteggiamento. Non tanto per il carattere appuntito, che a Livorno piace soltanto quando si vince ed è una sentenza di condanna quando si perde.
Esciua non poteva sapere (o lo doveva sapere?) che a Livorno non c’è spazio per calcio e basket ad alto livello, nello stesso momento. Le risorse economiche sono scarse, e vengono sempre da fuori: Benvenuti (Libertas) si è mosso da Las Vegas, Costa (Pielle) da Genova. L’imprenditoria livornese, da anni, si è defilata dallo sport: i soldi scarseggiano, ma c’è anche poca voglia di vivere perennemente sotto il giogo della possibile contestazione: uno, qui, ci deve vivere, lavorare e tiene famiglia.
Una torta esigua, dove le fette più grandi adesso sono andate allo sport dei canestri. Palallende e Palamodì, solo ieri, hanno riunito quasi settemila persone. Al Picchi invece guardavo la triste spruzzata di spettatori a macchiare appena la gradinata, la curva nord semivuota, la sud proprio deserta, la tribuna a metà. Grigio il cielo, grigio l’ambiente, e anche questo conta. Libertas e Pielle si sono presi la parte della torta che Esciua non ha e non avrà mai.
Un teorema, quello del basket che vola quando il calcio collassa e viceversa, che è nel libro mastro dello sport cittadino. Anni Ottanta, l’Enichem sfiora lo scudetto e l’Allibert va in Europa con il Livorno a galleggiare mestamente tra i dilettanti. Anni Duemila, il Livorno in A e in Coppa Uefa (con un imprenditore genovese) con con il basket quasi scomparso e relegato nelle serie minori. Un caso? Forse. Ma se si guarda, ad esempio, quante città possono mantenere calcio e pallacanestro ai massimi livelli, preparate le dita di una mano: Milano, Bologna, Napoli, Venezia, e la ricchissima Cremona. Livorno no, non ce la può fare. E deve rassegnarsi alle porte girevoli: esce il calcio, entra il basket. E domani. Magari, viceversa. Analisi personalissima, ripeto: magari meritevole di una riflessione.











